19 giugno 2012

Elogio del pragmatismo (parte 2a)


Mi chiedo quindi proprio in virtù di un pragmatismo corretto cosa non funzioni e quindi cosa possa essere corretto all’interno del partito.
Una prima questione quindi è il rapporto “base-vertice”: se non si vuole che il consenso sia il frutto della fiducia e non della lealtà politico/organizzativa dovremmo stabilire una regola della rappresentanza elettiva che sia mantenuta costantemente e che si basi sul dibattito continuo regolarmente accompagnato dalla assunzione di decisioni e di sintesi dello stesso.
Faccio un esempio concreto: assemblea nazionale dei circoli di sabato 23 giugno; non è pensabile che possa andare a questa riunione chi è disponibile, chi lo vuole, chi se la sente  e che per giunta vada  nella sostanza a titolo personale ed in rappresentanza praticamente di se stesso senza che la posizione che potrebbe esprimere non sia il frutto di una discussione dei circoli al livello provinciale di riferimento.
Questo atteggiamento è rappresentativo di due elementi negativi:
a) non esiste una sintesi del dibattito;
b) ognuno rappresenta solo se stesso e solo quando può partecipare, ed in ogni caso il
 “ quartier generale” ha, gioco forza, facilità a decidere per tutti.
Questo significa che in questo partito mancano i fondamentali della democrazia interna e nemmeno il vecchio caro e vetusto centralismo democratico viene rimesso in gioco.
Ciò che questo atteggiamento produce è solo l’autoassoluzione del gruppo dirigente e per altri versi mantiene in vita un secondo elemento negativo e cioè che ogni dirigente si sente in dovere di esprimere sempre e comunque la propria individuale posizione, vedi recentemente Fassina e Fioroni, senza citare come usava fare la Melandri l’IO anziché il NOI nell’esprimere la posizione che andava definendo, atteggiamento questo che contraddice il senso del partito come “intellettuale collettivo”.
Mi sembra che questo sia dal punto di vista interno forse il problema maggiore, senza per questo disconoscere che la stessa costituzione delle fondazioni debba trovare una soluzione che consenta la canalizzazione delle opinioni (collettive?) dentro il dibattito delle strutture di partito, questione che personalmente vedo in maniera positiva a fronte di un esercizio della rappresentanza che non può più essere quello del secolo scorso ed ancor meno quello di una partito che abbia un solo referente sociale relativo al mondo del lavoro.
 A tale proposito riterrei opportuna che si facesse proprio una riflessione a partire dalle modifiche sociali che sono intervenute negli ultimi anni, proprio perché si è fortemente modificata la composizione sociale della società italiana.
In particolare due aspetti: il riferimento al mondo del lavoro, comunque importante e che do per assodato non può non essere bilanciato da riferimenti a tutto ciò che non è e a tutti coloro i quali non sono più “mondo del lavoro e della produzione”; non possiamo far finta che i nostri referenti restino solo i 22 milioni di persone occupate a fronte di circa 60 milioni di abitanti; la crescita della aspettativa di vita e l’aumento della percentuale di disoccupati ci pone seriamente un problema di riequilibrio della nostra attenzione politica, dove fermo restando l’importanza del “lavoro” non possiamo non ritenere altrettanto importanti in termine di politiche strategiche di lungo periodo il mondo del “NON lavoro” e comunque considerando sempre più come si sia modificata la composizione e il rapporto tra forza lavoro dipendente ed autonoma.

Ciò comporta la ridefinizione di un “minimo comune multiplo sociale” che sia l’elemento collante ed unitario della nostra base di riferimento e se stiamo passando da una società di produttori ad una società sempre più caratterizzata dal consumo forse la categoria sociale di riferimento potrebbe iniziare ad essere la categoria dei consumatori in quanto ognuno di noi occupato o meno è produttore di consumo che sempre più dovrebbe diventare un consumo ragionato, ecologico, etc.
Questa riconversione del pensiero sociale e politico impone ovviamente l’abbandono o la rielaborazione del vecchio pensiero novecentesco da un lato e la riaffermazione di alcune basi ideologiche come il senso di eguaglianza e di fraternità che in parte sono stati sviliti negli ultimi anni da un eccesso di desiderio di “meritocrazia” che si basava su di una concorrenza sfrenata e priva di valori.
Il partito come strumento sociale non può quindi non essere che un strumento di formazione collettivo, uno strumento di orientamento ideale, ma per esserlo dive avere al proprio interno come regola di vita una forte caratterizzazione etica, norme certe, elasticità di pensiero, capacita di elaborazione, sintesi e compromesso che appartiene solo a chi ha saldi principi da cui si muove: non dovrà essere la fiducia ( cioè un sentimento di sicurezza, e di affidamento, stima incondizionata, credito) a muovere i rapporti interni, ma la lealtà intesa come virtù che si manifesta con onestà di intenti e rapporti, sincerità e schiettezza.

Alberto Battaglia