Mi
chiedo quindi proprio in virtù di un pragmatismo corretto cosa non funzioni e
quindi cosa possa essere corretto all’interno del partito.
Una
prima questione quindi è il rapporto “base-vertice”:
se non si vuole che il consenso sia il frutto della fiducia e non della lealtà
politico/organizzativa dovremmo stabilire una regola della rappresentanza
elettiva che sia mantenuta costantemente e che si basi sul dibattito continuo
regolarmente accompagnato dalla assunzione di decisioni e di sintesi dello
stesso.
Faccio
un esempio concreto: assemblea nazionale dei circoli di sabato 23 giugno; non è
pensabile che possa andare a questa riunione chi è disponibile, chi lo vuole,
chi se la sente e che per giunta vada nella sostanza a titolo personale ed in
rappresentanza praticamente di se stesso senza che la posizione che potrebbe
esprimere non sia il frutto di una discussione dei circoli al livello
provinciale di riferimento.
Questo
atteggiamento è rappresentativo di due elementi negativi:
a)
non esiste una sintesi del dibattito;
b)
ognuno rappresenta solo se stesso e solo quando può partecipare, ed in ogni
caso il
“ quartier
generale” ha, gioco forza, facilità a decidere per tutti.
Questo
significa che in questo partito mancano i fondamentali della democrazia interna
e nemmeno il vecchio caro e vetusto centralismo democratico viene rimesso in
gioco.
Ciò
che questo atteggiamento produce è solo l’autoassoluzione del gruppo dirigente
e per altri versi mantiene in vita un secondo elemento negativo e cioè che ogni
dirigente si sente in dovere di esprimere sempre e comunque la propria
individuale posizione, vedi recentemente Fassina e Fioroni, senza citare come
usava fare la Melandri l’IO anziché il NOI nell’esprimere la posizione che
andava definendo, atteggiamento questo che contraddice il senso del partito
come “intellettuale collettivo”.
Mi
sembra che questo sia dal punto di vista interno forse il problema maggiore,
senza per questo disconoscere che la stessa costituzione delle fondazioni debba
trovare una soluzione che consenta la canalizzazione delle opinioni
(collettive?) dentro il dibattito delle strutture di partito, questione che
personalmente vedo in maniera positiva a fronte di un esercizio della rappresentanza
che non può più essere quello del secolo scorso ed ancor meno quello di una
partito che abbia un solo referente sociale relativo al mondo del lavoro.
A tale proposito riterrei opportuna che si
facesse proprio una riflessione a partire dalle modifiche sociali che sono
intervenute negli ultimi anni, proprio perché si è fortemente modificata la
composizione sociale della società italiana.
In
particolare due aspetti: il riferimento al mondo del lavoro, comunque
importante e che do per assodato non può non essere bilanciato da riferimenti a
tutto ciò che non è e a tutti coloro i quali non sono più “mondo del lavoro e della produzione”; non possiamo far finta che i
nostri referenti restino solo i 22 milioni di persone occupate a fronte di
circa 60 milioni di abitanti; la crescita della aspettativa di vita e l’aumento
della percentuale di disoccupati ci pone seriamente un problema di riequilibrio
della nostra attenzione politica, dove fermo restando l’importanza del “lavoro” non possiamo non ritenere altrettanto
importanti in termine di politiche strategiche di lungo periodo il mondo del “NON lavoro” e comunque considerando
sempre più come si sia modificata la composizione e il rapporto tra forza
lavoro dipendente ed autonoma.
Ciò
comporta la ridefinizione di un “minimo
comune multiplo sociale” che sia l’elemento collante ed unitario della
nostra base di riferimento e se stiamo passando da una società di produttori ad
una società sempre più caratterizzata dal consumo forse la categoria sociale di
riferimento potrebbe iniziare ad essere la categoria
dei consumatori in quanto ognuno di noi occupato o meno è produttore di consumo che sempre più
dovrebbe diventare un consumo ragionato, ecologico, etc.
Questa
riconversione del pensiero sociale e politico impone ovviamente l’abbandono o
la rielaborazione del vecchio pensiero novecentesco da un lato e la
riaffermazione di alcune basi ideologiche come il senso di eguaglianza e di
fraternità che in parte sono stati sviliti negli ultimi anni da un eccesso di
desiderio di “meritocrazia” che si
basava su di una concorrenza sfrenata e priva di valori.
Il
partito come strumento sociale non può quindi non essere che un strumento di
formazione collettivo, uno strumento di orientamento ideale, ma per esserlo
dive avere al proprio interno come regola di vita una forte caratterizzazione
etica, norme certe, elasticità di pensiero, capacita di elaborazione, sintesi e
compromesso che appartiene solo a chi ha saldi principi da cui si muove: non
dovrà essere la fiducia ( cioè un sentimento di sicurezza, e di affidamento,
stima incondizionata, credito) a muovere i rapporti interni, ma la lealtà
intesa come virtù che si manifesta con onestà di intenti e rapporti, sincerità
e schiettezza.
Alberto
Battaglia