23 marzo 2012

Spunti di riflessione sulla riforma del lavoro

Attendo ancora il testo ufficiale prima di esprimere giudizi sulla riforma del lavoro proposta dal governo Monti, ma posso già esprimere alcune perplessita:

Reintegro vs 15 o 27 mensilità: Premesso che 15 mensilità mi sembrano troppo poche, perchè manterrei un minimo di 24, posso fare alcune considerazioni:
L'indennizzo al posto del reintegro può essere positivo o negativo a seconda dei casi. Ad esempio, probabilmente un giovane, laureato in qualche facoltà abbastanza richiesta e con un po' di esperienza potrebbe preferire prendere l'indennizzo, poichè nel frattempo può trovare facilmente un altro lavoro, magari anche all'estero; Chi dovesse trovarsi in questa situazione potrebbe anche valutare che il reintegro è dannoso, perchè toglie tempo e limita le possibilità di cercare altri lavori ed effettuare colloqui, oltre al fatto che restare in una ditta che ha tentato di licenziarti vuol dire sapere già in partenza che, comunque, la tua crescita, sia professionale che economica, in quell'azienda è finita...
D'altra parte un lavoratore prossimo alla pensione, magari non specializzato, dovrebbe preferire il reintegro, in quanto non ha più ambizioni di carriera e incontrerebbe ragionevolmente molte più difficoltà nella ricerca di un nuovo lavoro.
Sarebbe opportuno, secondo me, prevedere entrambe le possibilità, a discrezione del giudice,in modo che possa valutare situazione per situazione, proteggendo sempre il potere meno forte, ovvero il lavoratore.
E' anche vero che dovrebbero essere codificati meglio i giustificati motivi per un eventuale licenziamento, altrimenti si rischiano eccessi nel senso opposto (ricordo il caso dei lavoratori FS che timbravano il cartellino per i colleghi che stavano tranquillamente a casa).

Contratti a tempo determinato: Non mi è mai piaciuto l'obbligo di prendere o lasciare... quello che si dovrebbe fare è imporre dei contratti che prevedano per un lavotatore a tempo determinato, un minimo tabellare superiore rispetto a quello per il tempo indeterminato... diciamo tra il 20 e il 30% in più... in tal modo si compenserebbe con un entrata maggiore parte dei disagi dovuti alla precarietà. Diciamo che è la differenza tra acquistare e prendere in leasing... alla fine il leasing costa di più.
Se invece si vuole restare nell'ottica dell'imposizione, tanto comune in Italia, 36 mesi di rinnovi dei contratti a tempo determinato sono già troppi, abbasserei tale limite a 18 mesi, dal momento che sono comunque previsti contratti di apprendistato e simili.

Stage non retribuito: Sono d'accordo sulla questione degli stage non retribuiti, perchè sono stati abbastanza abusati negli ultimi anni, particolarmente dalle grandi aziende. Dobbiamo però stare attenti a tutte queste imposizioni, perchè diventano inutili se non poniamo un freno alle finte partite IVA, che consentirebbero alle Aziende di aggirare le limitazioni a stage e contratti a tempo determinato.

In ogni caso ritengo che, quando si decide di rendere i licenziamenti più facili (cosa che può anche essere considerata legittima) parallelamente si dovrebbe garantire la copertura di un sufficiente sussidio di disoccupazione, altrimenti si ottiene solo di innescare tensioni sociali.


Riccardo Brivio
Merate

22 marzo 2012

Art. 18: ecco cosa accadrà

Possiamo discutere quando vogliamo, possiamo essere d'accordo o meno su questo o su quello.......di certo è che tutto ciò è una vera e propria "MACELLERIA SOCIALE" - ELIMINANDO L'ART.18 ECCO COSA ACCADRA'. .. VERRAI LICENZIATO SE: (...)
  1. Sciopererai;
  2. Sei donna e vuoi fare più di un figlio (ricordiamoci dei licenziamenti in bianco fatti firmare dalle giovani donne);
  3. Ti ammali di una patologia invalidante e hai ridotto le tue capacità lavorative;
  4. Passi un periodo di vita difficile e non dai il massimo;
  5. Hai acciacchi ad una certa età che riducono le tue prestazioni (ed è molto probabile con l'allungamento dell'età lavorativa voluta dal Suo governo);
  6. Sei "antipatico" al proprietario o ad un capo che ti mettono a fare lavori meno qualificati e umilianti (mobbing);
  7. Chiedi il rispetto delle norme sulla sicurezza (nei luoghi di lavoro dove non esiste l'articolo 18 gli infortuni gravi e i casi mortali sono molti di più);
  8. Rivendichi la dignità di lavoratore, di uomo e donna;
  9. Sei politicamente scomodo (ricordiamoci dei licenziamenti e dei reparti confine degli anni 50 e sessanta);
  10. Non ci stai con i superiori;
  11. Contesti l'aumento del ritmo di lavoro;
  12. T'iscrivi ad un sindacato vero (su 1000 lavoratori richiamati alla FIAT di Pomigliano non uno è iscritto alla FIOM);
  13. Appoggi una rivendicazione salariale o di miglioramento delle condizioni di lavoro;
  14. Fai ombra al superiore e se pensa che sei più bravo di lui e puoi prenderne il posto (a volte comandano più del proprietario);
  15. Hai parenti stretti con gravi malattie e hai bisogno di lunghi permessi;
  16. Non sei più funzionale alle strategie aziendali;
  17. Reagisci male ad un'offesa di un superiore;
  18. Dimostri anche allusivamente una mancanza di stima verso il capo e il proprietario;
  19. Sei mamma ed hai un bimbo che si ammala spesso;
  20. L'ente/azienda per cui hai dato una vita di lavoro non ha più bisogno di te.

Paolo Catalano
Rsu Cgil Fiom

21 marzo 2012

Riforma del lavoro... le prime impressioni.

Andando come spesso mi capita un po’ controcorrente, a me pare molto positivo che:
  1. Il costo del lavoro a tempo determinato sia di più del costo del lavoro a tempo indeterminato
  2. Che il datore di lavoro dopo 36 mesi debba decidere se prendere o lasciare, e se assume viene incentivato poiché recupera parte dei soldi spesi per avere flessibilità e per formare
  3. Che lo stage non sia lavoro a costo zero ma si possa fare solo durante la carriera scolastica delle persone

I punti che devo capire meglio sono:
  1. Come si può velocizzare la giustizia per sapere subito se c’è giusta causa
  2. Come si crea lavoro perché il reintegro non sia l’unica speranza che ha il lavoratore per non restare disoccupato
  3. Se cambia il costo del lavoro e se aumentano gli stipendi verso la media europea
  4. Come si definisce una azienda in crisi. Se un’azienda paga bonus ai manager, paga loro indennità di trasferta anche se stanno 5 giorni a settimana nella stessa sede, se l’indennità di trasferta dei manager è 15 volte più alta di quella degli impiegati e nessuno controlla le note spese … poi l’azienda può definirsi in crisi e licenziare?
Capisco i dubbi sul concetto di licenziamento facile e sul metodo poco concertativo.
Sarebbe opportuno che il divieto di veto valesse anche per altri argomenti, come la legge sulla corruzione, il pagamento delle frequenze, la riorganizzazione della RAI, però mi pare anche di poter dire che l’estensione della legge sui licenziamenti alle piccole imprese è un passo avanti nella difesa di quei lavoratori.

Ora si tratta di leggere il testo nei dettagli e vedere cosa succede in Parlamento.


Canzio Dusi
@CanzioDusi

19 marzo 2012

Assebmblea di Osnago


Si è tenuta il giorno 12 Marzo 2012 presso la sede del Partito Democratico di Osnago la Assemblea degli iscritti al circolo del Partito Democratico di Osnago.
Fra i vari punti discussi, vale la pena soffermarsi sui ragionamenti svolti rispetto alla analisi della attuale situazione politica italiana.
 
Va detto che il dibattito è stato molto acceso, stante le critiche all’operato del governo Monti, ma anche la necessità che l’Italia esca dalla crisi e dai disastri compiuti dal precedente governo.
Si è sottolineato quanto l’esecutivo sia soggetto ad un Parlamento ancora fortemente di centro-destra.

Si è segnalata la necessità di avere chiarezza sui recuperi economici e quindi sulle risorse disponibili a fronte della manovra di emergenza compiuta in questi mesi da questo governo e la richiesta che i costi relativi a eventuali aumenti dovuti alla situazione contingente (accise, IVA etc.) vengano poi riportati alla situazione precedente una volta usciti dall’emergenza.

Ci si è soffermato molto sulla assoluta necessità che lo Stato, le Regioni, le Provincie ed i Comuni investano per poter rilanciare l’economia, superando anche il Patto di Stabilità.

La decisione fondamentale che il PD deve prendere in queste circostanze è se sostenere l’attuale governo anche in presenza di decisioni non totalmente condivisibili o se sia meglio andare ad elezioni anticipate.

Certamente, l’Italia è ora in una situazione migliore rispetto al 2011, ha un governo migliore, una immagine internazionale molto migliorata, una situazione economica che ha ripreso la strada virtuosa al punto che l’Italia non è più sotto attacco speculativo, ed è importante tener conto che il PD ha avuto comunque un ruolo nella caduta del governo precedente e nella gestione responsabile della sua successione.
La strategia dovrebbe essere quella di continuare a sostenere questa esperienza di governo cercando di influenzarla il più possibile.

Il governo aveva annunciato che l’equità era uno dei suoi obiettivi, su questo punto il PD deve incalzare l’esecutivo.  Il ricatto a cui il PDL sottopone continuamente il governo sulla base della sua forza parlamentare sembra però rendere molto difficile la possibilità di inserire alcuni obiettivi importanti nella azione di governo.

Il Governo gode in questo momento di una popolarità importante in quanto riconosciuto come composto da persone oneste e attendibili, che fanno ciò che dicono. L’Italia si era disabituata a governi del fare, ormai avvezza ai governi dell’annunciare.

Si segnala comunque che le critiche non tengono in sufficiente conto la ritrovata fisiologia democratica nell’azione di governo (un esempio: la gestione dei temi dell’immigrazione), che segna il nuovo corso anche sul versante culturale.
Lo stesso attivismo della Guardia di Finanza e della Agenzia delle Entrate rappresenta una novità, anche se già iniziata negli ultimi mesi del governo Berlusconi in quanto  direttamente collegabile al rischio di default.
In qualche modo, l’IMU si configura in parte come una tassa di tipo patrimoniale.

La riforma del lavoro è un banco di prova fondamentale, il PD deve influenzare le decisioni e poi accettare che non riuscirà ad ottenere tutto quello che avrebbe potuto realizzare se fosse al governo e che realizzerà quando governerà.
Ottenere che il costo del lavoro precario diventi maggiore del costo del lavoro stabile sarebbe già un punto molto qualificante.



Un governo tecnico che prende decisioni impopolari può permettere anche al PD di utilizzare l’anno in corso per preparare una proposta di governo convincente che porti gli elettori di centro-sinistra, oggi scettici, alle urne. Il PD è responsabile del programma di governo più dei suoi potenziali alleati e quindi sulle proposte si deve concentrare di più che su una sterile discussione sulle alleanze possibili.

E’ necessario far decantar alcune delusioni che non devono condizionare il giudizio complessivo sulla situazione generale, in particolare con riferimento a quanto ereditato.
Il ruolo del PD non è più quello di principale oppositore di Berlusconi, ma deve sempre più diventare quello di un partito che definisce la linea programmatica per riformare l’Italia.

Si è poi sottolineato come le Primarie restano uno strumento di democrazia, non esiste altro partito in Italia che elegge il proprio segretario tramite consultazione popolare.

Il PD deve comunicare con chiarezza i suoi obiettivi di governo e deve gestire al meglio la questione della leadership. Nei maggiori paesi europei la leadership dei maggiori partiti e la relativa successione sono preparate ed annunciate con largo anticipo. Ciò permette al leader di agire con chiarezza e senza indebolimenti dovuti a continui attacchi pubblici provenienti dall’interno del partito.

Si è sottolineato come ci sia ormai il dubbio che il bipolarismo in Italia sia possibile. Questo aspetto è particolarmente rilevante per un partito come il PD nato per essere una alta sintesi dei valori riformisti e di centro-sinistra in un sistema bipolare.

Il PD deve insistere per una riforma della legge elettorale e per una riforma della struttura istituzionale per combattere la decadenza delle istituzioni e dare un diverso grado di consapevolezza a chi assume ruoli istituzionali.
E’ anche necessario decidere se i partiti ricevano rimborsi spese (ed allora con documentazione delle spese sostenute) o debbano essere finanziati (opponendosi al risultato referendario del 1993) e nel caso come farlo in modo trasparente.
Un partito a base popolare deve poi trovare il modo di dare risorse ai circoli che rappresentano il legame con la base.


Per il Circolo PD di Osnago
Il Segretario
Canzio Dusi

07 marzo 2012

Tecnica e politica: il senso del fare

Forse è giunto il momento di fare qualche osservazione sul punto cui siamo arrivati e mi scuso se parto da lontano per motivarne le ragioni che comprenderete più avanti, ma visto i tempi che corrono un omaggio alla Grecia mi pare doveroso.

Sin dai tempi degli antichi greci la “tekne” aveva acquisito un insieme di connotazioni e di valutazioni più ampie del semplice “saper fare” e già Socrate nelle sue discussioni sviluppava il confronto tra tecnica e filosofia, in particolare nell’Apologia, dove artigiani e demiurghi evidenziavano reali capacità e conoscenze al contrario di poeti e uomini politici.

Potremmo dire che la “demos” (termine retorico per popolazione) ha di certo una sua dignità e una sua legittima cultura, ma non per questo può avere pretese di controllo sulla “polis” e se in Platone la critica alla tecnica è rivolta prevalentemente contro i Sofisti e contro una concezione utilitaristica del sapere, neppure in Aristotele la tecnica gode di maggiori fortune, perché a detta del filosofo si limita ad operare negli ambiti particolari senza curarsi delle cause.

Sarà solo dal ‘600 in avanti che la tecnica (prima con l’illuminismo e poi con il positivismo) troverà una chiave di lettura moderna e diventerà la chiave di volta per la liberazione dalla servitù del lavoro (Marx), anche se romanticismo e idealismo ne definiranno i contenuti “negativi” e la identificheranno con un modo di essere volgare e senz’anima.

Tutto il ‘900 sarà impegnato in un’indagine critica sul senso della tecnica sia attraverso il nichilismo, sia attraverso i giudizi e la profezia di Weber sul disincanto del mondo e le crescenti esigenze di normative tecnico burocratiche.

Inoltre scienza e tecnica hanno fornito durante tutto il secolo scorso sempre nuovi risultati, ma non hanno saputo rispondere alle domande fondamentali che coinvolgono l'uomo e la sua esistenza nel mondo, sopperendo il tal modo ad esigenze materiali, ma non riuscendo mai a formulare ipotesi o soluzioni ai mali del mondo.

La tecnica ha rivolto alle cose uno sguardo distaccato, freddo, che ha tese e tende ad "oggettivizzare" anche il soggetto che guarda, rendendo l'uomo una cosa tra le cose.

Lo stesso Husserl ha riproposto con forza l'antitesi tecnica-filosofia, nei termini di alienazione-riappropriazione della ragione da parte dell'uomo così come la Scuola di Francoforte, Horkheimer e Adorno, hanno evidenziato la volontà di dominio e di sfruttamento che muove la Ragione illuministica portandola alla piena realizzazione nella società capitalistica e iper-tecnologica.

In questo modo la lettura della tecnica come nichilismo viene ad unirsi ad una critica della società capitalistica che attinge a Marx e Freud; difatti ne L'uomo a una dimensione di Herbert Marcuse, la tecnologia viene presentata come l'essenza totalitaria del capitalismo, che opera attraverso la manipolazione dei bisogni umani da parte del potere costituito e così la tecnica, da sempre identificata con il progresso e trasformazione sociale, viene al contrario vista come strumento di conservazione dello status quo.

Su tutt'altro versante si pone il movimento cyberpunk il quale, a partire dagli anni ottanta, assume le tecnologie digitali e la realtà virtuale come "luoghi" di una possibile liberazione politica e sociale, come nuova agorà nella quale possano svilupparsi un pensiero ed una pratica sociale alternativi rispetto al sistema capitalistico: non più liberarsi dalla tecnica quindi, ma attraverso di essa, riprendere in qualche modo ed in forma moderna, e a volte contraddicendole, le tesi marxiane della liberazione dalla schiavitù del lavoro.

In tal modo il movimento cyberpunk oltrepassa l’alternativa tra tecnologia come alienazione/come liberazione, proponendo una sorta di "iper-alienazione" la quale, in una sorta di rovesciamento dialettico, libererebbe l'uomo dall'alienazione medesima attraverso la tecnica.

Di fatto, e di là dalle teorizzazioni di "guru digitali" come Nicholas Negroponte o William Gibson, la tecnologia digitale è oggi uno strumento elettivo del movimento “no global”, i cui membri comunicano tra loro e imbastiscono iniziative sociali e politiche tramite il tam-tam d’internet, dei suoi blog e dei suoi gruppi di discussione. Viene così a realizzarsi nella pratica almeno una delle profezie del Sessantotto, la nascita di quei "gruppi informali in fusione" nei quali Sartre e il già citato Marcuse vedevano una alternativa veramente rivoluzionaria rispetto alla oramai obsoleta forma del partito politico.

Pensiamo in questo quadro a quante volte ormai vengono citati ed usati i social network per la valutazione degli orientamenti ed una verifica istantanea su di un giudizio o su di una determinata situazione o un determinato proposito e non è un caso che lo stesso ISTAT abbia ipotizzato recentemente il ricorso a indagini capillari modello censimento decennale per verificare gli orientamenti della popolazione italiana e qui già potrebbe avvenire un primo cortocircuito delle forme di rappresentanza e dello stesso modello di democrazia rappresentativa.

“Hic Rhodus hic salta”, ci potremmo essere, quindi dobbiamo prepararci a fare delle scelte.

Abbiamo vissuto per un periodo medio lungo una attività politica prevalentemente giocata su contrapposizioni ideologiche e dico prevalentemente nel senso che molti sono stati gli aspetti anche materiali, legislativi etc. che hanno prodotto i risultati a cui siamo arrivati, tanto quante sono state le decisioni assunte senza valutarne gli effetti, o peggio ancora piegando le scelte ad interessi corporativi se non addirittura personali.

A fronte di questo non si dimentichi quanto possono (ed hanno) inciso contrapposizioni che avevano come forte identità quella del riconoscimento e della attribuzione di ruolo di nemico da attribuire all’avversario (da un lato i comunisti, dall’altro Berlusconi) costruendo le scelte politiche e le più o meno coerenti decisioni in funzione della identità di nemico, a partire dalla quale si costruivano alleanze; in sostanza ogni posizione, ogni scelta si basava sulla costruzione di un paradigma basato sulla paura dell’altro, come stimolo per una possibile unità e per una costruzione di identità. Da un lato la demonizzazione dei comunisti (per altro ormai relegati in soffitta) dall’altro la malvagia perversione dell’uomo ricco e potente (in parte vera ma poco politica).

Alla fine al di là delle modalità costituzionalmente previste ed utilizzate siamo arrivati, anche se in ritardo, ad una composizione di un governo tecnico come panacea per tutti i mali a cui attribuire la responsabilità di uscire dalla crisi a cui nessuna forza politica aveva saputo dare risposte.

Ma cosa ha significato questa scelta e poi è possibile essere tecnici senza cadere in scelte che abbiamo qualche referenza ideale o ideologica?

Esiste una contrapposizione tra tecnica e pragmatismo da un lato e politica e ideologia dall’altro? O questo è un assioma per il futuro cui si dovrà pensare?

La domanda potrebbe sembrare retorica, ma implica in ogni caso delle riflessioni anche alla luce non solo dei risultati raggiunti, ma anche alla luce delle future e delle necessarie decisioni che un partito qualsiasi dovrà prendere nonché alla luce di una crisi che sia interpretata come opportunità e non come problema.

Ciò che oggi accade è che chi più, chi meno, tenta di accaparrarsi chi dai sondaggi emerge con il maggiore consenso e il veltroniano “non lasciamo Monti alla destra” pare prefigurare un oggettivo mercanteggiamento sulla figura dell’attuale premier, se non addirittura un inchino a chi pare produca o stia producendo risultati mai realizzati dalla politica, il che farebbe pensare al senso ed alla utilità di forme partitiche ancora ancorate a scelte di campo di vecchio stampo ed ai limiti della produzione di risultati da parte della politica stessa, forse ingessata in alleanze e rappresentanze fortemente sfumate, oppure costituitesi a tutti gli effetti in lobbie.

Non è questo solo un problema della sinistra, perché la maggior immobilità di proposte è stata quella della destra al governo, più attenta a non modificare nulla che non a essere coerente con gli impegni elettorali, restando ingessata anche sul tema “liberalizzazioni” che avrebbe dovuto essere un loro cavallo di battaglia.

La stessa sinistra in mezzo al guado tra memorie del passato e timori del futuro ha finito con l’arroccarsi in posizioni di difesa e con enormi difficoltà nel costruire alleanze che potessero concorrere al cambiamento della maggioranza parlamentare.

Mi paiono conseguenti i dibattiti interni, le contraddizioni e le divisioni al limite della rottura che sono emerse ed emergono nelle principali forze politiche e che nascondono un retroterra di rappresentanza tanto friabile ed incerto quanto da ricercare.

Ma se così fosse davvero il problema sarebbe quello di accaparrarsi l’attuale premier come garanzia di vittoria elettorale ?

O forse non sarebbe necessario incominciare a interrogarsi su come essere i rappresentanti della società nella sua interezza? O forse non sarebbe quello di ridefinire le regole della rappresentanza parlamentare e delle sue forme?

Che la società attuale sia sempre più un articolato di interessi divergenti e a volte contrapposti lo dimostra la storia e l’incolumità che ogni singola categoria, purché in grado di ricattare, possiede; le ultime vicende di tassisti e farmacisti ne sono la riprova anche alla luce delle ultime e recenti difficoltà e alla rappresentanza che hanno in parlamento, queste categorie dimostrano tutta la loro capacità ricattatoria anche a fronte del loro modesto peso politico e numerico e lo stesso governo tecnico appare impotente tanto quanto lo sono state le forze politiche nel modificarne le condizioni.

Questo rischia di significare che già l’attuale parlamento è la sommatoria della rappresentanza di categorie eterogenee e questo in una logica di alleanze ed accordi altro non fa che produrre staticità delle norme, ricatto reciproco, alleanze ibride e la impossibilità di modifiche alle condizioni che si hanno ed ai privilegi conquistati, salvo ovviamente avviare uno scontro direi doveroso, tanto quanto forse sanguinoso; del resto togliere privilegi, diminuire diritti e tutele maturate in anni migliori resta sempre e comunque una operazione assai difficile e rischiosa, ma non per questo da non fare.

Ma se questo vale per alcune categorie minori in termini di metodo ed in termini di sostanza non si vede perché non debba valere anche per categorie più numerose ed importanti e che hanno avuto sicuramente nel corso della storia, non solo recente, un importanza sociale notevole, ma che hanno visto nel corso degli ultimi anni modificare anche il loro peso specifico nella società, che non è più la società della seconda rivoluzione industriale, ma ormai è la società della terza e forse anche quarta rivoluzione tecnologica, dove gli scambi e le esigenze organizzative sempre meno necessitano di presenze o di organizzazioni del lavoro rigide e di massa.

E se la società resta comunque una società del lavoro, intendendo per questo una società dalle multiformi modalità di lavoro, dove ognuno in qualche modo contribuisce ad assolvere una prestazione finalizzata ad altri, dove la produzione di beni e merci non necessariamente resta la produzione di prodotti materiali o manufatti, resta da chiedersi quale sia la mutazione genetica dello spazio attuale e futuro del lavoro ed in quali forme si esprimerà e potrà essere rappresentato, tutelato e normato.

Ciò che penso e che oggi si dovrebbe avere la capacità di svincolarsi dalle vecchie rappresentanze socio-politiche (compresa la lobby sindacale) ed avere una visione meno ancorata a vecchi paradigmi, forse perfino più coraggiosa anche nei confronti di quelle rigidità che condizionano il nostro operato e scusate se penso anche ai vincoli che la chiesa pone anche sul fronte ideologico allo stato, che sovrano dovrebbe essere in ogni luogo del proprio territorio, penso proprio per non affrancarmi solo a materie di ordine economico quanto di tecnico ci sia sul fronte delle opportunità per la tutela, il rispetto, l’etica della vita.

Mi chiedo quindi se anche la tecnica e questa esperienza di governo tecnico saprà alla fine opporre non tanto resistenze a chi non vuol cambiare, ma se saprà in realtà modificare le modalità politiche forzandole ad una riflessione più ampia sulla loro natura e se da questa forzatura possa emergere un partito che abbia una visione nuova della società e dei suoi meccanismi e che si ponga oltre l’ortodossia del XX secolo.

Se tecnica significa quindi più del saper fare, se governo tecnico significa possedere competenze specifiche e forti senso del pragmatismo, come funzione fondamentale dell'intelletto nel consentire una conoscenza obiettiva della realtà non più separabile dalla funzione di una efficace azione su di essa, se tutto questo è lo spazio dentro il quale si possono e si debbono modificare le condizioni attuali di una società che ha perduto alcuni dei suoi valori preminenti, come il senso di eguaglianza, la difesa dei più deboli ed il sostegno ai più bisognosi, dove il termine equità sia la pietra di paragone per la interpretazione del concetto di civiltà, se questo è il concetto di tecnico ecco che lo spazio della politica viene messo in discussione e può riappropriarsi della sua funzione solo ricostruendo una visione del mondo che sia onnicomprensiva, che sappia cogliere le molteplici forme della sua apparenza e della sua realtà, riconducendo ad un principio di unità sociale che sappia contenere e ridefinire le priorità.

Questa sarà la futura forma partito, o forse questa dovrà essere, perché l’esercizio della rappresentanza non sarà più legato a categorie sociali perché la loro composizione sarà non solo più articolata, ma la mobilità sociale diventerà uno dei fondamenti di una società fluida, dove mobilità, flessibilità, crescita e decrescita saranno condizioni normali.

Ciò che non possiamo avere è il timore per il futuro, nulla di catastrofico ci attende, ciò che dobbiamo assumere è la consapevolezza che la tecnica nell’epoca della quarta rivoluzione industriale è in grado di offrirci una sana pragmaticità che si basi sulla ponderatezza delle nostre intuizioni, ove gli ideali siano stati in grado di superare schematismi ideologici e dove il senso della politica e del fare politica torni ad essere la gestione della polis nella sua integrità, lontano quindi dal ristretto alveo della rappresentanza di interessi specifici, dove il cittadino non sia più visto, letto, interpretato alla luce del suo ruolo nella società o nella sua massificazione, ma come individuo capace, come primus inter partes.

Un governo del futuro dovrà per forza essere un governo dove la tecnica, cioè qualcosa in più del saper far bene, dovrà essere centrale rispetto alle esigenze di gestione e direzione della società, dove gestione significa capacità di mantenimento e direzione significa orientamento ed individuazione delle strategie e in questo la politica dovrà rintracciare il senso per la sua sopravvivenza.


Alberto Battaglia


03 marzo 2012

Non è un paese per giovani (talenti)

La difficile situazione legata alla presenza delle multinazionali nel nostro territorio, con particolare riferimento alle multinazionali legate allo sviluppo di tecnologia ed innovazione, induce a ragionare sulla politica industriale che questo paese vuole darsi.Risulta evidente che il problema non riguarda più solo le delocalizzazioni di produzioni verso paesi a più basso costo, ma coinvolge anche ricercatori di alto profilo il cui lavoro viene spostato in paesi a costo più alto, quali gli Stati Uniti, a fronte della politica di investimento che il Presidente Obama sta perseguendo in questo anno cruciale per la economia statunitense, per l’economia mondiale, ma anche per il suo futuro presidenziale.

Investire e creare posti di lavoro è la ricetta scelta dall’Amministrazione Obama, che ha individuato i settori ove gli Stati Uniti devono concentrare i loro sforzi.

Niente di tutto questo avviene in Europa, e men che meno in Italia.

Quali sono i settori verso cui indirizzare i nostri investimenti? Quali sono i settori verso cui specializzare i nostri giovani? In quale settore possiamo avere un ruolo importante a livello mondiale per cui siamo pronti ad impegnarci allo spasimo in un mondo altamente competitivo?
Alta tecnologia, ma anche cultura e turismo, alimentare, tessile …. si tratta di fare poche scelte mirate e lavorare in modo efficace per organizzare l’intera struttura scolastica, professionale ed industriale in Italia.
Senza una operazione complicata, di enorme dimensione, ma indispensabile come questa, il nostro paese si ridurrà ad esportare giovani di talento, per la cui formazione spendiamo giustamente fior di quattrini, e a dover importare anche le tecnologia.

Se per le materie prime, la dipendenza dall’estero è probabilmente inevitabile, anche se si può ridurre grandemente con l’uso di energie alternative, nel caso della tecnologia ci troveremmo a dipendere dagli altri paesi del mondo per scelte miopi e per inerzia, a causa della mancanza di una strategia e delle azioni conseguenti.

E’ necessario che si crei appena possibile un ambiente accogliente e gratificante per i giovani di talento che vogliono esprimere le loro potenzialità in Italia.
Andare all’estero per scelta è una grande opportunità, andare all’estero perché obbligati rappresenta una sconfitta per il nostro paese.
Non c’è più tempo da perdere, serve agire con la massima decisione possibile per proteggere l’Italia da un declino inevitabile se i giovani saranno costretti a emigrare per poter esprimere le loro potenzialità di creatori di innovazione e tecnologia.
Questo è un appello disperato che deve generare una reazione forte dell’opinione pubblica verso la classe dirigente italiana, sia politica che economica. 

NON C’E’ PIU’ TEMPO DA PERDERE, CREIAMO SUBITO UN PAESE ACCOGLIENTE PER SVILUPPARE LE IDEE DEI GIOVANI TALENTI!

Vi consiglio in relazione a questi ragionamenti due contributi che mi sembrano molto interessanti e che riguardano la vicenda Alcatel Lucent:

http://www.mbnews.it/lettere-al-giornale/23702-crisi-alcatel-lettera-aperta-di-un-lavoratore.html :
una lettera aperta piena di passione per il proprio lavoro e per il proprio paese, pubblicata da MBNews.

http://www.youtube.com/watch?v=U94slWbbtUo&feature=player_embedded :
un video molto originale che si trova su Youtube

Il coordinatore dei circoli PD del meratese
Canzio Dusi
Twitter: @CanzioDusi

02 marzo 2012

Circoli virtuosi e quadrature del cerchio

Premetto che non sono molto convinto che la soluzione della crisi contemporanea sia la crescita, intendendo per tale l’aumento della produzione e l’espansione del consumo e lo dico nel convincimento che proprio questa crisi segna per molti versi un punto di non ritorno, o come direbbero i marinai una “linea d’ombra” raggiunta la quale è più facile e breve il proseguire di quanto non lo sia la strada del ritorno.

Parlare di cambiamenti epocali non mi sembra una esagerazione, ma la presa d’atto, la presa di coscienza che siamo al tramonto di un modello di sviluppo che per quanto abbia prodotto benefici, quasi per tutti, è ormai giunto al massimo delle sue potenzialità e ne è la riprova la crisi finanziaria (intesa come elemento sovrastrutturale della produzione o di un modello produttivo che segnava da tempo una fase di stallo) dove la ricchezza del prodotto è stata sopravanzata dalla ricchezza della virtualità monetaria ed azionaria e dove questa virtualità e diventata merce di scambio in un contesto oltremodo accelerato dalla informatizzazione delle informazioni: se posso parafrasare C. Marx direi che la forma vicariante della merce, il denaro, è stato a sua volta vicariato dall’azione borsistica.

Ciò non di meno l’emergere di nuove realtà economiche (Cindia in particolare), saturazione del mercato occidentale, costi delle materie prime, crisi economiche di diversi stati, hanno reso e rendono difficile una credibile scommessa sulla possibile crescita e su di un attendibile modello di sviluppo. Senza dimenticare quanto le previsioni econometriche abbiano oltremodo sbagliato ogni ipotetico riferimento per il recente passato, tanto quanto la globalizzazione ha reso sempre più difficile la comprensione delle dinamiche economiche dei molteplici soggetti operanti nel mercato e dove le teorizzazioni e le ipotesi di conclusione della crisi stessa si sono dimostrate quanto meno poco veritiere e governate quasi sempre dalle emotività del mercato finanziario e da quei nuovi oracoli che sono le società di rating.

Penso questo perché intravedo all’orizzonte (magari non immediato) la fine di un epoca di industrializzazione che ha retto l’economia per quasi due secoli, ma che come in ogni rivoluzione industriale che si rispetti ha gettato il seme del proprio cambiamento, ma non sul piano delle valutazione economica, bensì sul piano proprio della produzione di beni.

Solo un esempio per chiarezza: siamo convinti che il mercato dell’auto sia destinato ancora per tanto tempo ad essere uno dei motori trainanti dell’economia o forse come in parte avvenne per le carrozze a metà ‘800 anche questo segmento di mercato e di produzione è destinato ad una sua “decrescita” o se preferite ad un suo ridimensionamento?

Dicono che la filosofia sia in parte l’arte di formare, inventare o fabbricare concetti, il buon Carletto Marx scrisse circa un secolo e mezzo fa che ”se i filosofi avevano interpretato il mondo, era giunto il tempo di cambiarlo” e cosi in parte avvenne e piaccia o non piaccia tutto il ‘900, nel bene e nel male, è stato un crogiuolo di innovazioni positive sia sul piano economico e della ricerca, sia sul piano della estensione di diritti e di libertà, nonostante due guerre mondiali o forse anche grazie a due guerre mondiali.

Ma forse proprio per questo è tornato il tempo della rielaborazione dei concetti, di una ricostruzione di prospettive che riproponga al centro una “modernità umana” e principi che si possano ispirare non solo alla logica della produzione (e della produttività), bensì alla centralità della generalizzazione di condizioni standard di vita e dove il termine “crescita” sia l’equivalente di distribuzione e non già arricchimento ed accaparramento.

La nuova consapevolezza deve basarsi sul fatto che ogni reddito perso non sia un risparmio o un maggior utile per qualcuno, bensì sia assumere la consapevolezza che una minore capacità di spesa equivalga alla diminuzione o perdita di reddito per altri in un circuito poco virtuoso che produrrà solo aumento di povertà diffusa.

Alcune osservazioni sintetiche:
  • la crescita demografica attiene sempre più a quello che abbiamo definito nel secolo scorso il terzo mondo;
  • la possibilità di espansione del mondo occidentale dipende dalla capacità di concorrenza confrontato con il mercato e con le capacità produttive della Cina e India in particolare;
  • le crisi mediorientali e del mediterraneo non garantiscono alcuna stabilità nel medio periodo e non necessariamente propendono verso regimi di modello occidentale;
  • il petrolio resta e resterà per molto tempo un elemento di disequilibrio e di ricatto;
  • l’assenza di regole di governo internazionale della finanza producono incertezza ed instabilità sui mercati.
Se così possiamo configurare i prossimi decenni resta da chiedersi e da interrogarsi su quale crescita certa possiamo contare e quindi su quali ipotetici benefici dobbiamo fare i conti.

Senza per questo fare dichiarazioni di pessimismo esasperato o integralista resta da parte mia il dubbio che la crescita, intesa come sviluppo e accrescimenti delle produzioni, possa essere la via di uscita da questa crisi o se invece proprio la capacità di innovare i nostri parametri di valutazione e di giudizio non siano quell’elemento che possa farci ipotizzare, non solo idealmente, un modello di società e di produzione di ricchezza più corrispondente al futuro prossimo venturo, dove sia la distribuzione il perno sul quale operare quel giro di volta che possa caratterizzare questa crisi come un elemento positivo.

Tradotto: sapremo costruire un modello di vita e di società estesa dove eguaglianza e solidarietà (internazionale) siano i cardini per una espansione dei mercati ? dove la filosofia torni a formare, inventare, fabbricare modelli di vita? dove l’economia riprenda il suo cammino di scienza, norma, legge del bene di famiglia e dove la stessa sia la scienza che promuove lo sviluppo in termini di ricchezza, progresso sociale, scientifico e tecnologico e non mero accaparramento di ricchezza di beni e merci ?

Utopia tutto questo? Forse, ma ciò che abbiamo prodotto ci ritorna sotto forma di immondizia se parliamo di merci, sotto forma di ingiustizia se parliamo di soprusi e limitazione di diritti, sotto forma di violenza se parliamo di ruberie o costrizioni.

Varrebbe la pena in conclusione ricordare come tra le esigenze ci sia anche quella di una riconoscibilità del diritto sociale al lavoro, intendendo per tale la funzione di socialità che ogni prestazione di lavoro dovrebbe consentire a chiunque, proprio perché collante delle dinamiche di appartenenza alla società ed in questo senso ritornano, a mio avviso, forti le politiche destinate a stimolare la domanda in periodi di disoccupazione; ad esempio tramite un incremento della spesa pubblica sul modello proposto da Keynes il quale non aveva piena fiducia nella capacità del mercato lasciato a se stesso di esprimere una domanda di piena occupazione, ritenendo necessario quindi che in talune circostanze fosse lo Stato a stimolare la domanda: queste argomentazioni hanno poi trovato conferma nei risultati della politica del New Deal, varata negli stessi anni dal presidente Roosevelt negli Stati Uniti.

E mi chiedo quindi perché non rammentare che qualche decennio orsono proprio da fonte sindacale emergevano due ipotesi di lavoro forse oggi ancora più importanti: i contratti di solidarietà e la riduzione dell’’orario di lavoro come due elementi che unificavano solidarietà e redistribuzione del reddito; il lavorare meno per lavorare tutti forse è il miglior viatico per la tutela dei diritti perché ci dimostra la crisi odierna che senza lavoro non possono esserci diritti o luoghi in cui poterli difendere.

Sono partito dal negare la possibilità della crescita economica, ma non per questo ho voluto negare una redistribuzione delle ricchezze, penso ad uno sviluppo diverso e su terreni anche produttivi diversi (dalla metalmeccanica all’ informatica, dalla metallurgica allo sviluppo delle fonti energetiche alternative), penso quindi ad una crescita “diversa” da quella a cui si è pensato per decenni e, proprio per questo, che si accompagni ad una diversa concezione e distribuzione dei diritti del lavoro e non.


Alberto Battaglia