02 marzo 2012

Circoli virtuosi e quadrature del cerchio

Premetto che non sono molto convinto che la soluzione della crisi contemporanea sia la crescita, intendendo per tale l’aumento della produzione e l’espansione del consumo e lo dico nel convincimento che proprio questa crisi segna per molti versi un punto di non ritorno, o come direbbero i marinai una “linea d’ombra” raggiunta la quale è più facile e breve il proseguire di quanto non lo sia la strada del ritorno.

Parlare di cambiamenti epocali non mi sembra una esagerazione, ma la presa d’atto, la presa di coscienza che siamo al tramonto di un modello di sviluppo che per quanto abbia prodotto benefici, quasi per tutti, è ormai giunto al massimo delle sue potenzialità e ne è la riprova la crisi finanziaria (intesa come elemento sovrastrutturale della produzione o di un modello produttivo che segnava da tempo una fase di stallo) dove la ricchezza del prodotto è stata sopravanzata dalla ricchezza della virtualità monetaria ed azionaria e dove questa virtualità e diventata merce di scambio in un contesto oltremodo accelerato dalla informatizzazione delle informazioni: se posso parafrasare C. Marx direi che la forma vicariante della merce, il denaro, è stato a sua volta vicariato dall’azione borsistica.

Ciò non di meno l’emergere di nuove realtà economiche (Cindia in particolare), saturazione del mercato occidentale, costi delle materie prime, crisi economiche di diversi stati, hanno reso e rendono difficile una credibile scommessa sulla possibile crescita e su di un attendibile modello di sviluppo. Senza dimenticare quanto le previsioni econometriche abbiano oltremodo sbagliato ogni ipotetico riferimento per il recente passato, tanto quanto la globalizzazione ha reso sempre più difficile la comprensione delle dinamiche economiche dei molteplici soggetti operanti nel mercato e dove le teorizzazioni e le ipotesi di conclusione della crisi stessa si sono dimostrate quanto meno poco veritiere e governate quasi sempre dalle emotività del mercato finanziario e da quei nuovi oracoli che sono le società di rating.

Penso questo perché intravedo all’orizzonte (magari non immediato) la fine di un epoca di industrializzazione che ha retto l’economia per quasi due secoli, ma che come in ogni rivoluzione industriale che si rispetti ha gettato il seme del proprio cambiamento, ma non sul piano delle valutazione economica, bensì sul piano proprio della produzione di beni.

Solo un esempio per chiarezza: siamo convinti che il mercato dell’auto sia destinato ancora per tanto tempo ad essere uno dei motori trainanti dell’economia o forse come in parte avvenne per le carrozze a metà ‘800 anche questo segmento di mercato e di produzione è destinato ad una sua “decrescita” o se preferite ad un suo ridimensionamento?

Dicono che la filosofia sia in parte l’arte di formare, inventare o fabbricare concetti, il buon Carletto Marx scrisse circa un secolo e mezzo fa che ”se i filosofi avevano interpretato il mondo, era giunto il tempo di cambiarlo” e cosi in parte avvenne e piaccia o non piaccia tutto il ‘900, nel bene e nel male, è stato un crogiuolo di innovazioni positive sia sul piano economico e della ricerca, sia sul piano della estensione di diritti e di libertà, nonostante due guerre mondiali o forse anche grazie a due guerre mondiali.

Ma forse proprio per questo è tornato il tempo della rielaborazione dei concetti, di una ricostruzione di prospettive che riproponga al centro una “modernità umana” e principi che si possano ispirare non solo alla logica della produzione (e della produttività), bensì alla centralità della generalizzazione di condizioni standard di vita e dove il termine “crescita” sia l’equivalente di distribuzione e non già arricchimento ed accaparramento.

La nuova consapevolezza deve basarsi sul fatto che ogni reddito perso non sia un risparmio o un maggior utile per qualcuno, bensì sia assumere la consapevolezza che una minore capacità di spesa equivalga alla diminuzione o perdita di reddito per altri in un circuito poco virtuoso che produrrà solo aumento di povertà diffusa.

Alcune osservazioni sintetiche:
  • la crescita demografica attiene sempre più a quello che abbiamo definito nel secolo scorso il terzo mondo;
  • la possibilità di espansione del mondo occidentale dipende dalla capacità di concorrenza confrontato con il mercato e con le capacità produttive della Cina e India in particolare;
  • le crisi mediorientali e del mediterraneo non garantiscono alcuna stabilità nel medio periodo e non necessariamente propendono verso regimi di modello occidentale;
  • il petrolio resta e resterà per molto tempo un elemento di disequilibrio e di ricatto;
  • l’assenza di regole di governo internazionale della finanza producono incertezza ed instabilità sui mercati.
Se così possiamo configurare i prossimi decenni resta da chiedersi e da interrogarsi su quale crescita certa possiamo contare e quindi su quali ipotetici benefici dobbiamo fare i conti.

Senza per questo fare dichiarazioni di pessimismo esasperato o integralista resta da parte mia il dubbio che la crescita, intesa come sviluppo e accrescimenti delle produzioni, possa essere la via di uscita da questa crisi o se invece proprio la capacità di innovare i nostri parametri di valutazione e di giudizio non siano quell’elemento che possa farci ipotizzare, non solo idealmente, un modello di società e di produzione di ricchezza più corrispondente al futuro prossimo venturo, dove sia la distribuzione il perno sul quale operare quel giro di volta che possa caratterizzare questa crisi come un elemento positivo.

Tradotto: sapremo costruire un modello di vita e di società estesa dove eguaglianza e solidarietà (internazionale) siano i cardini per una espansione dei mercati ? dove la filosofia torni a formare, inventare, fabbricare modelli di vita? dove l’economia riprenda il suo cammino di scienza, norma, legge del bene di famiglia e dove la stessa sia la scienza che promuove lo sviluppo in termini di ricchezza, progresso sociale, scientifico e tecnologico e non mero accaparramento di ricchezza di beni e merci ?

Utopia tutto questo? Forse, ma ciò che abbiamo prodotto ci ritorna sotto forma di immondizia se parliamo di merci, sotto forma di ingiustizia se parliamo di soprusi e limitazione di diritti, sotto forma di violenza se parliamo di ruberie o costrizioni.

Varrebbe la pena in conclusione ricordare come tra le esigenze ci sia anche quella di una riconoscibilità del diritto sociale al lavoro, intendendo per tale la funzione di socialità che ogni prestazione di lavoro dovrebbe consentire a chiunque, proprio perché collante delle dinamiche di appartenenza alla società ed in questo senso ritornano, a mio avviso, forti le politiche destinate a stimolare la domanda in periodi di disoccupazione; ad esempio tramite un incremento della spesa pubblica sul modello proposto da Keynes il quale non aveva piena fiducia nella capacità del mercato lasciato a se stesso di esprimere una domanda di piena occupazione, ritenendo necessario quindi che in talune circostanze fosse lo Stato a stimolare la domanda: queste argomentazioni hanno poi trovato conferma nei risultati della politica del New Deal, varata negli stessi anni dal presidente Roosevelt negli Stati Uniti.

E mi chiedo quindi perché non rammentare che qualche decennio orsono proprio da fonte sindacale emergevano due ipotesi di lavoro forse oggi ancora più importanti: i contratti di solidarietà e la riduzione dell’’orario di lavoro come due elementi che unificavano solidarietà e redistribuzione del reddito; il lavorare meno per lavorare tutti forse è il miglior viatico per la tutela dei diritti perché ci dimostra la crisi odierna che senza lavoro non possono esserci diritti o luoghi in cui poterli difendere.

Sono partito dal negare la possibilità della crescita economica, ma non per questo ho voluto negare una redistribuzione delle ricchezze, penso ad uno sviluppo diverso e su terreni anche produttivi diversi (dalla metalmeccanica all’ informatica, dalla metallurgica allo sviluppo delle fonti energetiche alternative), penso quindi ad una crescita “diversa” da quella a cui si è pensato per decenni e, proprio per questo, che si accompagni ad una diversa concezione e distribuzione dei diritti del lavoro e non.


Alberto Battaglia

Nessun commento:

Posta un commento