27 febbraio 2012

Guardare avanti

Sta finendo un epoca: quella dell’autodeterminazione delle nazioni e dei popoli, una lunga epoca che ho visto l’emanciparsi e il liberarsi progressivo di tante parti della terra, di quella terra colonizzata ed imperializzata che era stata terra di conquista della civilissima Europa prima e degli Stati Uniti successivamente e che finendo ci consegnerà definitivamente alla globalizzazione, cioè ad una forma nuova di integralismo, non solo economico, ma anche culturale, che sta mutando complessivamente le regole del gioco e ridefinendo gli assetti economico culturali del mondo e che non necessariamente avranno un impronta europea o nord americana.

Dentro queste parentesi economico/sociali si sta rimodellando un globo più complesso ove le polarità e le centralità del potere sfuggono ad una concretezza spaziale percepibile a confini geografici certi, a politiche di dazio possibili, dove l’autarchia releghi nella povertà chi la caldeggia. La finanza ne è infatti la leva motrice e come si potrebbe dire “un battito d’ali in Cina potrà produrre e forse già produce un terremoto in Sudamerica”, cosi come la crescita o caduta di una azienda o di un paese può essere deciso in luoghi molto lontani ed in forme sempre meno concrete e sempre più virtuali, perfino lontane dal quel capitalismo materialistico che gli ultimi due secoli ci avevano proposto ed oggi la tempistica che i nuovi strumenti di comunicazione consentono rende il tutto possibile in tempo reale, quindi anche con esigenze di decisioni rapide per non dire istantanee.

 Negli ultimi 100 anni alla ricchezza come materialità delle cose e del possesso si è andata sostituendo una ricchezza virtuale basata su azioni, obbligazioni, BOT e CCT, valori cartacei che hanno ridisegnato sia la nostra ricchezza che i nostri patrimoni: l’uso del credito (e quindi del debito) si è sostituito progressivamente alla scambio monetario diretto come lo stesso si era sostituito in forma vicariante, ma materiale, al baratto. Mutata la forma dello scambio, ma non quella dell’uso, è venuto meno sempre più il valore reale di una merce che tale era, fin che ha mantenuto inalterata la forma dello scambio e nella logica del credito (e quindi del debito); si sono quindi artificialmente gonfiate ricchezze e disponibilità in un mondo sempre più cartaceo ed effimero, ponendo le basi forse per una prossima scomparsa del denaro come lo abbiamo conosciuto che andrà sempre più sostituito dal “credito” come acquisizione di un “debito”.

Possiamo star qui a discutere per ore come uscire dalla crisi, ma se non razionalizziamo la sua forma virtuale, cioè lo scambio “materia contro credito” (si potrebbe dire “realtà con finzione”) difficilmente riusciremo a superarla, finendo con l’avvitarci in una spirale per nulla virtuosa e per altro già sperimentata alla fine del decennio scorso negli Stati Uniti con un crescendo di credito/debito per compensare un futuro di acquisti e/o promesse di pagamento. Se volessimo astrarre ancora di più, quello che stiamo sperimentando è la vendita del presente in cambio di un futuro del tutto ipotetico o se preferite l’acquisto del futuro in cambio di un presente inesistente ed è qui che infatti sta l’inganno della virtualità. Ciò di cui abbiamo bisogno è di disfarci di un sogno, superare l’ effimera essenza dell’immateriale scambio e ridefinire regole che accertino e sanciscano la concretezza delle cose come unico possibile reale elemento di scambio, ma per far questo ci vuole il coraggio di porre limiti alla finanza ed alla simbologia artificiale del suo potere, si dovrebbe avere il coraggio di imbrigliare le borse come mercato dello scambio e della ricchezza, si dovrebbero imporre pesanti limiti alla liberalità delle società di rating ed alle loro sentenze, soprattutto stante gli interessi privati, questi si materiali e materializzabili, che le stesse hanno.

La nostra “decrescita felice” dovrà essere un ridimensionamento del nostro futuro, una rimaterializzazione delle nostre possibilità e non alludo solo alle grandi questioni, ma anche alle nostre piccole modeste prospettive d’ipotetica ricchezza che abbiamo coltivato; dobbiamo cioè scambiare una parte del nostro futuro delle nostre aspettative dei nostri sogni con una maggiore concretezza del nostro presente privandoci delle illusioni che “il futuro sia nostro e a portata di tutti” e che sia un sogno comunque realizzabile. Non è più tempo di “ sogni americani” o sogni globali, questa crisi ci riconduce ad una visibilità del presente che deve appartenerci come prospettiva ottimistica, come sogno da realizzare “oggi” e non domani. Nulla di tutto ciò deve riecheggiare modelli di ecologismo conservativo, di un ritorno alla felicità di una natura incontaminata dei secoli scorsi, ne all’utopia della semplicità, ma solo ad un drastico ripensamento delle nostre prospettive di crescita ed alla ridefinizione di uno sviluppo che non sia sempre e solo crescente, ma che possa subire interruzioni e salti non lineari e non necessariamente in avanti, ma che sia invece di stimolo a ripensamenti complessivi che rimescolino le carte sempre più globalizzate e sempre più bisognose di gestori universali, meno nazionali o parziali. Stupisce infatti come nel dibattito italiano sulla crisi ciò che emerge siano riflessioni autoreferenziali dove ognuno si muove da ciò che è, o meglio forse da ciò che è stato, senza la consapevolezza che “un mondo con i suoi paradigmi” è finito; che senso ha parlare di “noi metalmeccanici”, “noi pensionati”, “ noi Italia” (e lascio stare le singole corporazioni di professioni) di fronte alla globalizzazione dei problemi ? Quasi che la difesa di singoli e corporativi interessi sia la soluzione di un problema più generale; mi pare che un atteggiamento di questo tipo altro non rappresenti che il conservatorismo ormai anche di molti che si dichiarano di “sinistra” e che negano quindi che essere tali sia “essere nelle dinamiche delle cose” come avrebbe detto chi proclamò che “marxista non lo è mai stato”, cioè un certo Carlo Marx.

 Vale forse la pena di ripensare ad un terreno di confronto che sia in grado di misurare il nostro stato di salute “interpretativa” e che si possa muovere da parole d’ordine che ripropongano un senso di realtà e di misurazione delle cose: ne propongo per iniziare due: eguaglianza e dignità. Eguaglianza come termine di paragone delle diversità e come terreno delle opportunità per tutti, che sappia ridisegnare gli spazi essenziali di una comunità sempre più globalizzata e sempre più complessa, ma che colga e proponga le basi di un vivere comune in un concetto di “eguaglianza nel” e di “eguaglianza con”. Dignità intesa non solo come una qualità della persona, ma come livello di difesa e di messa a difesa delle persona stessa nella sua materialità e quindi come difesa “dal potere”, protezione del corpo e ridefinizione di una bio-politica (Foucault) alla luce di una nuova etica laica e a partire dall’art. 32 della nostra costituzione integrandone senso e funzione proprio con i concetti di eguaglianza e di “libertà da …” e “libertà di …”

 Certo questo implica conversioni a “U”, ripensamenti sulle reali prospettive di sviluppo sulla sua materialità, sulla esistenza delle forze produttive sul gigantesco lavoro di riconversione che dovrebbe servire (penso solo al settore automobilistico e alle sue prospettive di crescita e mercato nel mondo occidentale nonché alla concorrenza legittima di marche e modelli asiatici). E poi come riconvertire posti di lavoro ? come e con chi riempirli a fronte di uno sviluppo quantitativamente inferiore e con uno sviluppo tecnologico che semplifica ed accelera i tempi di produzione ? certo non sarà ne facile ne breve questo periodo, ma quello che dovremmo comprendere e che si esce dalla crisi con uno sforzo comune abbandonando la logica “dell’ IO” come presupposto da cui partire e nella consapevolezza di un “NOI” di ampio respiro, perché alla fine dentro ognuno di noi esiste un insieme che è la somma di un produttore/pensionato, di un uomo che vive un presente e vuole un futuro e noi stessi siamo nel tempo parti di un insieme cadenzato e se oggi parliamo di “patto tre le generazioni” a maggior ragione guardando al futuro dovremmo vederci come un “soggetto nella dinamica delle cose ed degli eventi temporali” e non come parte separata anche da noi stessi.

Si tratta quindi di ridefinire una complessiva modalità di vita che riaffronti il tempo e la sua scansione, non più quindi la novecentesca scansione delle “tre 8” (per dormire per lavorare per vivere), ma speriamo una possibile riduzione del tempo dedicato al lavoro, una sua maggiore flessibilità ed una sua possibile periodizzazione alternata a periodi di riposo, altrimenti la non auspicabile prospettiva è la riduzione delle forze produttive come il secolo scorso ci ha insegnato: la guerra come strumento di riduzione delle forze produttive e dei prodotti con la realizzazione di investimenti nel settore degli armamenti e conseguente ulteriore sviluppo tecnologico, forse accompagnato da una redistribuzione del reddito e del benessere sociale per alcuni, i vincitori ovviamente.

Proviamo a pensare di poter andare in pensione avendo maturato solo qualche anno di contributi, magari a 30 anni quando si ha voglia e possibilità maggiori di divertimento e di vita, per poi riprendere l’attività lavorativa ed andare in pensione a 70 compensando il tempo già usato per la pensione; perché la flessibilità deve avere per forza connotati di negatività, perché dobbiamo appartenere culturalmente ad un mondo superato e voler solo riprodurre quasi ciberneticamente un mondo che sta cambiando? Chiediamoci il perché viene meno la nostra rappresentanza e se non diamo di noi stessi un immagine superata senza un volo, non di fantasia, ma come proposta di cambiamento reale che si affacci al mondo che verrà con chi ci sarà e che smetta di essere auto-conservativo nel suo corporativismo primitivo: la crisi impone scelte importanti e chi avrà il coraggio di farle potrà essere il gestore di un futuro che vorremmo sempre migliore e questo atto dimostrerà il nostro altruismo verso chi verrà altrimenti saranno ricordi privi di senso da reduci dell’ennesima sconfitta.


Alberto Battaglia

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